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Arnaldo Pomodoro al Forte di Belvedere

Un testo di Italo Mussa

Man Ray, Duchamp, Ugo Mulas.

Ora anche Carlo Orsi si cimenta con la fotografia come opera d'arte: le sculture di Arnaldo Pomodoro al Forte di Belvedere di Firenze.

Le immagini sono eventi a sé stanti e rappresentano "l'allestimento" irripetibile di Pier Luigi Cerri della mostra del 1984. Le sculture, lo spazio michelangiolesco, lo sfondo miracoloso di Firenze e delle colline di San Miniato sono i soggetti di uno sguardo che per la prima volta "scopre" le ragioni segrete di "guardare" l'opera d'arte.

Essendo soprattutto forme nello spazio, le sculture di Arnaldo Pomodoro vivono anche dei riflessi della realtà circostante. La loro "monumentalità" è vertigine, inquietante presenza, equilibrio instabile. Carlo Orsi ha azzerato la sua memoria e privilegiato lo sguardo per "interpretare" liberamente l'evento.

L'impatto morbido ma preciso ha privilegiato l'opera e il suo contesto, evidenziato sia l'infinitamente piccolo delle fessure che l'infinitamente grande della forma, in una osmosi di luce e ombre. La "veduta" è colta in flagranza, nel suo impercettibile divenire. Fotografando la scultura, Carlo Orsi ha pensato alla pittura. Il contrasto luce-ombra, i raccordi e gli scorci dei punti di fuga come "immensità" spaziale sono propri della veduta. Chi guarda l'immagine è "dentro", non "fuori" il campo visivo, come nelle vedute del Canaletto. Anche nella fotografia il reale è in divenire. La sua imprevedibilità introduce la "verità" del luogo. Quel che vediamo meraviglia perché causato più dalla riflessione che dal semplice scatto. Quindi la fotografia non è un "rimedio" per cogliere rapidamente il reale. Del reale essa è una "evidenza originaria", aperta alle molteplici interrogazioni evidenziate dall'interpretazione. Carlo Orsi è un fotografo, per dirla con Roland Barthes, che ama il "punctum" del reale (il particolare come il tutto, e viceversa), perché contiene l'imprevedibilità del divenire. L'immagine, infatti, è se stessa e non rinvia ad altro. Da qui la sua flagranza visiva. Come diceva Alvin Langdon Coburn, a a proposito del rapporto tra arte e tempo (Camera Work, la rivista di fotografia di Alfred Stieglitz, Einaudi 1981), l'istantanea fotografica è una "cometa nel cielo dell'eternità".