C'è uno spiffero e poi una voragine. Un ordine, un disordine e poi un miracoloso assestamento. Un mondo, una città, una piazza come una casa prima durante e dopo la festa.
C'è una furia senza ferocia, una serenità cupa eppure formidabile. Cielo e terra, mattoni, picconi. Bianco e nero. Carlo Orsi.
Vedo un autentico reportage. Autentico perché non disturbato da finzione alcuna.
Semplicemente, talento fotografico per registrare ciò che è. Che è stato, visto oggi.
Ed è un viaggio possibile e diverso sempre. Diversissimo nei bilanci di chi vede oppure vide.
Allora, all'epoca dei fatti - come si dice - fu soprattutto una gioia. Quella che stava e ancora
resiste nelle fotografie.
La gioia di chi quello spiffero aprì e di Carlo che scattava.
Il Muro infranto, spaccato, disossato e divorato durante un banchetto in calendario da anni.
Per qualcuno da una vita, da sempre. Una barriera da rimuovere comporta gesti liberatori in ogni caso. Quella lì, poi, figurati. Il Muro per Il Gesto, Il Segno. Tempo ed Epoca. Storia.
I posto per ogni cosa, il sorriso del soldato che vede, finalmente oltre, ad altezza propria, d'occhio; l'epica di un piccone nel cielo e la gente scomposta per sguardi, mani, gambe.
Chi c'era e per sempre sarà stato, ricorderà. Protagonisti a vario titolo, compreso quello che aveva portato Carlo sin lassù, mollando le gambe lunghissime di una modella, di altre inquadrature, le sue, per andar dietro a un desiderio, a un altro istinto fotografico che pure resiste nella sua anima da randagio. Bisognava dare un colpo, esserci, smontare il mostro, scardinare i pezzi del Lego. Scatti come martellate. Con un ritmo che è scientifico, perfetto,
caratteristico e naturale.
Fu una botta di vita, ecco. Una botta di vita memorabile.
E l'aria fredda, secca di Berlino arriva qui, ancora, dalle inquadrature, passa sugli zigomi e vola via con il suo profumo di un natale fuori quota, fuori programma. Fotografie come vecchie scatole spalancate. Persino una musica, ecco, una tromba nella notte, un fiato lontano e notturno.
Questo ritorna ora, mischiato ad altro, ai giorni, agli anni, ad una consapevolezza che nulla ha a che fare con le immagini per ciò che mostrano ma che molto ha a che fare con le immagini per ciò che producono adesso.
Un rimpianto, per cominciare e finire qui, qualunquista e amaro, al cospetto di questa piazza sterminata che vedo, così ampia e spoglia da star male. Un abisso di libertà che ha dentro troppo vuoto, che di un palo, di un mattone, almeno uno, uno soltanto, ha bisogno e nostalgia.
Come una guerra immaginata da chi non ha combattuto, sprovvista dell'orrore, del dolore, così un muro, Il Muro, si ricompone nell'egoismo, nella disperazione da libertà in overdose. Perché anche un frammento di Muro diventa, diventerebbe un lembo di velluto al quale aggrapparsi per trattenere il tramonto di un sogno, di una fortissima utopia.
Di questo, pure, tengo conto misurando la gratitudine che ho per Carlo Orsi. Fotografie per una stranissima, contraddittoria meraviglia.
Giorgio Terruzzi
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